“A Gaza è genocidio, lo dicono anche gli israeliani: fame dei palestinesi colpisce più delle bombe”, parla Anna Foa

Parola alla storica
«Se si guardano le immagini dei giovani che partecipano alle manifestazioni in Israele, questa parola c’è ovunque e fino a un mese fa non c’era. La fame dei palestinesi colpisce l’etica delle persone ed è diversa dalle bombe, sembra più voluta»

Il coraggio di prendere posizione, argomentando con la forza delle idee. Un tratto connotativo di Anna Foa, figura che dà lustro all’ebraismo italiano. La professoressa Foa ha insegnato Storia moderna all’Università di Roma La Sapienza. Si è occupata di storia della cultura nella prima età moderna, di storia della mentalità, di storia degli ebrei. Il suo ultimo libro, Il suicidio di Israele (Laterza), ha vinto il Premio Strega per la saggistica, riscontrando un grande successo di pubblico.
In un suo recente articolo su La Stampa, c’è una affermazione molto importante. Cito testualmente: “Ora palestinesi e israeliani hanno lo stesso nemico, Netanyahu”. Da cosa nasce questa sua asserzione, professoressa Foa? Il fatto che in queste settimane le manifestazioni mettano insieme la salvezza degli ostaggi con la riprovazione dell’uccisione dei bambini palestinesi a me sembra un legame molto forte. Nei primi tempi, in qualche modo, la salvezza degli ostaggi aveva prevalso, era qualcosa che si sentiva fortissima in Israele, quando invece c’era ancora quella che Alpher, Gideon Levy e altri deploravano come la sordità etica ed anche empatica di fronte a quello di terribile che stava succedendo a Gaza. Da due mesi a questa parte qualcosa di profondo è cambiato.
A cosa lo si deve? Alla fame. Qualcosa che colpisce molto di più l’immaginazione e anche l’etica delle persone e non soltanto tra gli oppositori di Netanyahu. Un riscontro lo si è avuto anche nel mondo della politica. La rottura della tregua, l’inizio del blocco degli aiuti e poi la trasformazione degli aiuti internazionali in aiuti fasulli da parte di questa organizzazione americana e israeliana, tutto questo ha cambiato anche la percezione del mondo. Si dirà, e a ragione, troppo lentamente. Ma un cambiamento c’è stato. La fame è qualcosa di diverso dalle bombe, nel senso che la fame sembra più voluta. C’è poi un’altra cosa molto importante che è avvenuta…
Quale? La parola genocidio è stata sdoganata in Israele. Se si guardano le immagini dei ragazzi, dei giovani che partecipano alle manifestazioni, adesso c’è ovunque la parola genocidio, mentre fi no a un mese fa non c’era. Questo significa che c’è stata una fusione tra quelli che si preoccupavano soltanto di una guerra che sembrava distruttiva degli israeliani – mentre dei palestinesi poco ci si occupava, perché tutto era incentrato sugli ostaggi – con quelli che hanno assunto anche il compito etico di pensare al disastro, al genocidio, allo sterminio di Gaza, insieme a quelli che si preoccupano della sorte di Israele. Se continuasse così potrebbe essere il momento in cui cambia la situazione interna a Israele, qualcosa di decisivo, perché se si vuole porre fi ne alla guerra è essenziale un cambio politico alla guida di Israele.
In nostre precedenti conversazioni, lei ha sempre tenuto a operare un distinguo tra lo Stato, il Governo e il popolo d’Israele. Una distinzione non semantica ma sostanziale. L’opposizione alla guerra di Netanyahu si è manifestata da tanto, già un paio di mesi dopo quel tragico 7 ottobre 2023. Ma era una opposizione che guardava soprattutto agli ostaggi, ai soldati. Non va mai dimenticato che c’era ancora molto forte il trauma del 7 ottobre. Ci sono tanti articoli su Haaretz, diversi dei quali l’Unità ha meritoriamente divulgato, che lamentano questa mancanza di empatia con le vittime dei bombardamenti su Gaza. Ho la sensazione che questo sia cambiato e che ci sia stata una fusione con l’insopportabilità, l’insofferenza verso quello che di terribile sta succedendo a Gaza o in Cisgiordania, che prima, insisto su questo, non c’era. Adesso dubito che si possa parlare di una mancanza di empatia, quando ci sono dei ragazzi israeliani, ebrei, che vanno a dormire nelle case dei palestinesi per evitare che i coloni li attacchino, li uccidano. Questa è una cosa straordinaria che io non ho davvero mai visto in un nessun altro posto. C’è la fi glia di amici nostri, diciottenne, alla quale i coloni hanno bruciato la macchina mentre era in casa di palestinesi per provare a proteggerli. Ragazzi di sedici, diciotto, diciannove anni che vanno lì dicendo “noi siamo ebrei e siamo qui per proteggervi con il fatto che ci siamo”. A me sembra una cosa straordinaria. La fusione che c’è stata tra il dolore per gli ostaggi e anche la preoccupazione per Israele, con l’opposizione a una guerra che a un certo momento, dopo alcuni mesi, nessuno sentiva più sua.
Perché, professoressa Foa? Perché appariva come una guerra di vendetta e non di salvezza degli ostaggi. Adesso tutti si preoccupano fortemente di quello che sta accadendo a Gaza, e hanno questa percezione. In questo c’è il salto di qualità dell’opposizione popolare a Netanyahu e al più nefasto governo che Israele ha avuto nella sua storia. Continuo a pensare che il governo non sia la stessa cosa del popolo, anche se, va detto, il popolo è spaccato, ci sono ancora tanti sostenitori di Netanyahu. Ma in questo momento, quelle due facce, prima assolutamente marginali, piccolissime, di pochi intellettuali, si sono unificate. Per questo ho detto e scritto che palestinesi ed ebrei, in Israele e nei Territori occupati, abbiano lo stesso nemico: Benjamin Netanyahu.
Solo per aver usato la parola suicidio, a titolo del suo ultimo libro, o per aver usato il termine genocidio, lei ha subito critiche pesan tissime anche interne alla comunità ebraica. Non ritiene che per aver detto queste dolorose verità, lei come altri, penso ad esempio a Stefano Levi della Torre, vi siete dimostrati veri amici di Israele? Vede, so bene che non è mai stato capito così, ma io ho inteso usare la parola “suicidio” nel senso di volermi preoccupare per quella che era la sorte d’Israele, oltre che la sorte dei palestinesi. Avevo due preoccupazioni, ma conoscendo meglio Israele, avendoci vissuto sia pure per periodi non lunghi, mi sentivo più in grado di ragionare su questo. Non sono sionista, ma non per questo penso che gli israeliani vadano buttati in mare. Sono “a-sionista” e non vengo da una famiglia in cui il rapporto con Israele fosse considerato importante. Era una famiglia fortemente diasporica e questa è la mia tradizione. Ciò nonostante, è ovvio che io conosca meglio Israele. E in quel momento, quando ho scritto quel libro, la mia preoccupazione era per Israele. Poi è venuta la preoccupazione, e l’indignazione, per l’enorme eccidio di palestinesi. E si è venuta sempre più rafforzare in me la convinzione che la sorte d’Israele, politica ed anche militare, ma soprattutto etica, e la sorte dei palestinesi fossero strettamente, indissolubilmente legate.
Lo spessore di un Paese è dato anche dalla sua leadership. Come è stato possibile passare da grandi d’Israele, come è stato Yitzhak Rabin, a politici come Benjamin Netanyahu? Potrei dire che non è l’unico caso. Basti pensare agli Stati Uniti e anche all’Italia e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ovunque siamo di fronte all’assoluta decadenza politica, intellettuale, della classe dirigente. In più, ovunque e non soltanto in Israele, stentano ad emergere fi gure di veri e propri leader all’altezza. Questo vale per Israele, ma anche per i palestinesi. Si spera in Marwan Barghouti, che però sta nelle prigioni israeliane da decenni. E questo sta a testimoniare che c’è una carenza fortissima di leadership anche in campo palestinese. In Israele c’è chi è uscito allo scoperto, anche con posizioni importanti, penso ad esempio a Yair Golan e anche persone che erano state del Likud, ma nessuno di questi ha sin qui saputo acquisire un ruolo, riconosciuto, di leader. Anche perché Israele è molto cambiato, e questo cambiamento probabilmente non è ancora percepibile. Può essere che tra i giovani emerga qualcuno, nei prossimi mesi e non anni, che capisca il cambiamento, che tragga le conclusioni di quello che sono stati questi quasi due anni terribili, per Israele e ancora di più per la Palestina, per Gaza, per i gazawi. Ogni volta che leggo ciò che sta succedendo a Gaza, che vedo certe immagini sconvolgenti, c’è la sensazione che stiamo assistendo a qualcosa che non ha precedenti.
Per lei sono stati mesi molto intensi: le presentazioni del suo libro, i dibattiti a cui ha preso parte in giro per l’Italia. Che sensazioni ha riportato, come è cambiata, se è cambiata, la percezione di ciò che sta avvenendo in quella martoriata parte del mondo? Innanzitutto, ho riscontrato un interesse molto più vivo che a novembre o dicembre. In questi ultimi mesi l’interesse è notevolmente cresciuto. Alle ultime iniziative a cui ho partecipato, c’era un numero di persone presenti molto più alto di quanto non ci si potesse immaginare alcuni mesi fa. È qualcosa che colpisce fortemente l’opinione pubblica. Permane l’insofferenza verso l’opinione un po’ differente dalla propria, soprattutto sui social. Penso che bisognerebbe provare a trovare dei compromessi, non rispetto al nemico da battere, cioè Netanyahu, rispetto alla guerra, ma smussare le asperità più radicali. Trovare le ragioni che ci fanno stare insieme invece di rimarcare le differenze. Ciò darebbe ancora più forza qui in Italia alle pressioni sul governo, per il riconoscimento dello Stato palestinese e sull’intervento a Gaza, ma il discorso è ancora più importante in Israele, dove è fondamentale unire le diverse anime dell’opposizione. D’altro canto, è tipico di ciascuna resistenza mettere insieme, almeno nei momenti topici, le diverse anime. È stato fatto per la resistenza italiana antifascista, ed è servito. Per il momento non mi sembra che ci sia ancora la dovuta percezione di questa necessità, parlo soprattutto di Israele e della tragedia palestinese. Lì davvero non c’è più tempo.
Spesso si dice che senza memoria non c’è futuro. Ma un grande scrittore israeliano, scomparso, Amos Oz, sosteneva che forse per Israele era tempo di liberarsi dal peso della memoria, di non restarne prigioniero. Sono d’accordo con questo. Penso che se vogliamo raggiungere quantomeno un compromesso che permetta a palestinesi e israeliani di vivere vicini senza ammazzarsi, questo richieda anche una revisione del nostro uso della memoria. La memoria è stata violentata in Israele. E questo non riguarda solo il governo Netanyahu. È cominciata con il processo Eichmann, che fu un processo di fondazione dello Stato d’Israele sulla memoria della Shoah, che in sé è anche più che legittimo, ma che ha anche avuto tanti aspetti negativi, per diventare sotto questi governanti, questi messianici religiosi, qualcosa di completamente deformante. Bon è soltanto la memoria della Shoah. È anche la lettura della Bibbia fatta per dimostrare che quella è Eretz Israel, la Sacra Terra d’Israele. È l’archeologia messa al servizio della memoria. Tante cose di cui bisognerebbe sbarazzarsi. So che è molto diffi cile ma mi auguro che a un certo punto anche i palestinesi rinunceranno almeno a un pezzetto della loro memoria. Memoria come costitutiva di identità da tutte e due le parti. Ma a questo punto forse è necessario uscire da questa identità e cercarne un’altra, più comune. Una identità quanto più condivisa
l'Unità